Filippo ricorda quella mano, fatta di delicati segmenti bianchi e pelle sconfitta. La mamma, rannicchiata in quella poltrona troppo larga, gli cantava ancora quella canzone. Prendeva in prestito la voce del mare, perché lei oramai era trasparente, come l’acqua, come la luce. Come la vita che la stava abbandonando.
– L’ uccellin che vien dal mare, quante penne può portare, può portarne solo tre: una, due, tre…
– Mamma, sei bella.
Lei, prosciugata dalla malattia, respirava già l’assenza di se stessa negli occhi del figlio.
– Tu sei la cosa più bella che la vita mi ha dato.
– Quando non ci sarai più mamma, ti nasconderò dentro di me.
E l’ultima lacrima del mare salutò Filippo. Che nel frattempo si fece ragazzo. E amò le donne senza amore, per non rischiare di perderne più nessuna.
Sdraiato nei suoi quasi 19 anni, Filippo osservava il ricamo delle onde dall’esilio di una panchina. Sciabole bianche e blu si intrecciavano nella forza del mare d’inverno. In quel litigio d’acqua non c’era spazio per le indecisioni o i ripensamenti. E ben sapeva che quello che vedeva con gli occhi era una rappresentazione teatrale amplificata di quanto gli stava accadendo nel corpo. Nella testa. E forse nel cuore.
Se ne andò, allora. Lì dove la vide la prima volta. In un gesto nuovo ma già sicuro, prese la macchina e lì la trovò, ferma ad aspettare. Seduta su quel gradino inospitale, in quel piazzale che non ha mai avuto una storia da raccontare. Proprio accanto a quel gradino, stava per accadere un piccolo miracolo d’amore.
mi ha fatto venire gli occhi lucidi…
Mi sono emozionata anch’io…