Riassunto della puntata precedente: Giacomo scrive messaggi belli, sfiziosi. La conversazione fluisce che è un piacere, ma…
Sai, la gente è strana… prima si odia e poi si ama.
Io lo so che sono strana ma Giacomo non lo odio. E non lo amo. Giacomo è un sorso di aranciata bevuta prima di passare alla cassa. Buona ma tossica, e ne sto diventando dipendente. Quando non c’è, la sua assenza vive nell’attesa del suo ritorno.
Non so cosa pensi lui di me.
Oggi è venerdì e si è fatto sentire, ma un po’ meno del solito. Il “solito” per due che si scrivono da due settimane suona parecchio comico. Il suo buongiorno è arrivato puntuale: una foglia su cui era inciso un sorriso sghembo, ma simpatico. Gli ho risposto con lo stesso sorriso storto, inciso nella mela della colazione.
Spesso ci siamo ingarbugliati in una catena di battute senza senso, nelle quali abbiamo sempre imparato qualcosa di serio l’uno dell’altra:
– Ciao, stai mica facendo qualcosa di utile per l’umanità?
– Sì, sto zitto quando non devo dire niente di intelligente!
Non ci siamo ancora sentiti al telefono.
Non riesco a disegnare la sua voce nella mia testa. È come se le sue parole scritte non avessero suono. Ciononostante, continuano a fare “toc-toc” nella mia testa. Probabilmente abbiamo paura. Anzi, ho paura. So infatti, che potremmo essere magici solamente grazie al supporto della tastiera. Galeotto fu lo smartphone. E ancor prima Nabokov. Nessuno dei due -io soprattutto- per ora intende spezzare l’incantesimo, anche perché qui non c’è davvero nessuna strega, abbiamo fatto tutto da soli. Il sortilegio è benauguratamente consenziente. Credo che entrambi avevamo semplicemente bisogno di una tregua dal mondo e dalle occhiate a vuoto ad un cellulare che non rivela mai nessun segreto interessante.
Bip. Messaggio.
– Stasera? Cinema all’aperto? 🙂
È Serena. Mi prende per la maglia e mi tira dalla sua parte.
Non devo e non voglio opporre resistenza.
– Certo, perché no?
Stasera provo a tornare quella che ero. Prima di annegare nell’aranciata.
Ritrovo, ore 21.00.
Serena mi punta addosso la lampada da film poliziesco e cerca di capire se io sia una donna maltrattata. Dopo la mia domanda sulle molestie, crede che io non riesca a confessare i miei problemi. In realtà l’unico problema che ho è che vorrei essere perseguitata da uno che si chiama Giacomo e invece lui oggi non c’è quanto vorrei.
– C’è qualcosa che devi dirmi? – Serena mi agita per la collottola come fossi un gattino.
– Sì, che se non ci muoviamo perdiamo l’inizio del film e ti avviso che io non entro a vedere uno spettacolo già iniziato. Sono una purista della trama. – Altro che gattino. Sono una tigre. Ma che sta rotolando nella pozzanghera in un documentario.
– Non far finta di non capire. Si vede da come cammini che hai un problema.
Questo non me l’aveva mai detto nessuno.
– Sentiamo, come cammina uno con i problemi?
– Vai avanti (cretina) e te lo spiego!
Il film non era male. Era la storia di un medico di mezza età ipocondriaco, incastrato nel suo passato di oramai ex-marito devoto. Poi arriva lei, ragazza madre slavata, condita di risate e microbi che gli ricorda che è ancora vivo. E potrebbe pure strappare il biglietto della felicità assieme a qualche manata unta del figlio di lei, nanetto iperattivo con sei denti in bocca.
Ho osservato il camice bianco del dottore. Con la mente sono finita nell’ambulatorio in cui lavora Giacomo. Me lo sono inventato, ma c’ero dentro. Lo ammetto, per semplificarmi la vita ho ricamato stereotipi odontoiatrici attorno alla sua figura. Mi serviva davvero poco per fare un sogno completamente pilotato.
Il film è finito. Giacomo non scrive. Potrei scrivergli io. Ma dopo un’assenza di un giorno intero, sembrerebbe una dichiarazione di nostalgia. E in effetti sarebbe così. Maledette logiche femminili di conversazione scritta.
Cammino muta in questo venerdì notte che sa tanto di lunedì. Non guardo dove vado, la strada verso casa è nota e fedele nella mia testa e nei miei passi. Quindi avanzo senza dubbi. Fiducia in ciò che si è, a prescindere dagli altri. Non mi viene da piangere, sarebbe esagerato e decisamente patetico. Mi spiace solo vedermi delusa avendo fatto tutto da sola. Mi sono condotta per mano in un bosco che non conosco. Evidentemente è arrivato il momento della mela avvelenata.
È quasi mezzanotte e mezza, sento il silenzio del buio addosso. Due ragazzi, mani in tasca e testa già nel cuscino, si stanno pigramente salutando. Una coppia sui cinquanta, ostenta un aggancio a braccetto che proclama la dignità dei loro ruoli agli occhi del mondo. Io invece affondo lo sguardo nell’asfalto che mi sta davanti e stasera mi sembra un po’ più scuro.
Sabato mattina.
Schiaccio il viso nel lenzuolo. Un pugno di luce mi sgrida perché non ho voglia di alzarmi.
Il mese di giugno è così strano. Sono quasi incredula. Davvero sta arrivando quella cosa che si chiama estate? Noi adulti siamo sempre in attesa della fregatura. Che vita dura, quella dei grandi.
Mi alzo.
Sono arrivata a leggere metà “Lolita”. Me lo porto sempre dietro, naviga nella mia maxi borsa di tela. Sono in ferie, ho lunghe giornate libere e non ho in programma viaggi importanti. Quelli da fotografie sorridenti che meritano una cornice nel soggiorno. Quindi ho lasciato che i miei interessi prendessero il mio tempo. Senza scadenze, senza pianificazioni da periodo lavorativo.
Ho guardato le anteprime dei messaggi per smentire la mia delusione, ma non c’è stata nessuna svolta. Oggi non c’è il buongiorno che mi sarebbe piaciuto ricevere. Va bene così. Non fa niente. Bugiarda.
Colazione in un bar del centro e nessuna meta precisa. La zona è quella del centro storico, dove palazzi neoclassici e mura medievali formano una collana di perle antiche e lavorate. Solo quattro vie più in là, la libreria galeotta. Ma sono anche vicina al municipio, al molo e alla migliore pasticceria della città. Il mio recente senso di sconfitta mi pesa ancora un po’. Quindi non mi va di tornare dove tutto è iniziato. La giornata è calda ma ventilata, e vicino al mare starò bene. Amo stare appollaiata sul molo. Le gambe che ciondolano sul bordo del muretto mi ricordano la gioia sospesa di quando da piccola andavo in altalena. Quindi vado a trovare il mare. Anche se in realtà è lui che trova me. Mi fruga dentro e sa sempre cosa cercare. Ed io lo lascio fare.
Poca gente che passeggia oggi, anche se è un prefestivo. Oramai i triestini preferiscono fare i weekend fuori. Piccoli morsi che anticipano le vere vacanze.
Via il segnalibro. Vediamo che combina ora questa birichina di Lolita.
Leggo otto righe soltanto e sento squillare da qualche parte un telefono. I Muppets. “Mahna–mahna”, per la precisione. Mi disarmo subito dalle illusioni e mi dico che non può essere la “sua” suoneria. Sta ancora suonando. Cerco la fonte di tutto questo. La trovo. Lo trovo.
È seduto sul mio stesso lato, ha capelli neri aggrovigliati da mille pensieri, un accenno di barba e occhiali sottili. Il suo sguardo è agganciato alle onde che dondolano attorno a questa appendice di cemento. Risponde.
– Ciao nonna, sì mi sono ricordato di prenderteli. Sì, sono stato in libreria. Ci vediamo dopo a pranzo.
È lui. Deve essere lui. La suoneria, la nonna, l’accento diverso. La voce che ho tanto immaginato.
Devo fare una cosa. Assolutamente.
Prendo il mio telefono. Impostazioni. Suoneria. Volume. Se si gira e mi sono sbagliata, mi prenderà per scema, oppure farà un’altra cosa che deciderà lui. Accetto il rischio. Vai Morandi, aiutami tu.
– Ritornerò, in ginocchio da teeeeeeee!!!
Suona a lungo. La sente. Si volta verso di me.
È stato uno di quegli attimi per cui vale la pena fare cavolate. Per cui merita pedalare, per non cadere. Lui mi ha guardata. I suoi occhi mi hanno riconosciuta. Mi ha sorriso e all’inizio non si è alzato. A distanza, col semplice labiale, ha iniziato a cantare il testo della canzone. Rapita da quella cosa tutta nostra, ho iniziato a cantare anch’io.
È finita la canzone. Si è alzato. Lo guardavo avvicinarsi e avevo le mani che abbracciavano le ginocchia, nell’attesa del regalo più bello. Il mio batticuore tradiva ogni dissimulazione. Ero emozionata. Giacomo si è inginocchiato accanto a me. L’ orologio gli è scivolato un po’ dal polso. In quel momento è entrato nel mio angolo di estate.
– Sono riuscito a farti una sorpresa o mi hai mandato a quel paese per non averti più scritto?
Gli ho sorriso, perché se lo meritava davvero. Era molto bello da vicino. Ed aveva fatto una cosa speciale.
– Wow, sei tornato in ginocchio da me. Questa sì che è una storia da raccontare.
Immagine: Pixabay
Songs: Mahna-mahna – Muppets Show
“In ginocchio da te” – Gianni Morandi
… WOOOOOOWWW!!!! Adesso voglio il libro! Non può essere l’ultima puntata!!!
…e chi se l’aspettava questo successo??!?