– “Cent’anni di solitudine” oppure “Lolita”? – Il mio labiale interrogò la mia mente.
Forse l’inizio dell’estate 2017 era un buon momento per giustificare un azzardo letterario. Quella libreria era piccola e fragile, come le pagine dei libri che conteneva. Scaffali e spine dorsali di tomi ingialliti dominavano lo sguardo dei rari clienti. L’aria sapeva di tappeto mai sbattuto. Un negozietto -insomma- di quelli nascosti tra le pareti scarabocchiate delle case del centro storico. Entrare in una libreria che vende libri di seconda mano mi aveva fatto tornare indietro di una ventina d’anni, come quando ero una studentessa delle superiori e alle prime piogge di fine estate andavo a fare scorta di conoscenza a buon mercato. Per qualche motivo deciso dal fato, credevo di trovarmi in un posto speciale. Un luogo per pochi eletti che -nel caso- avrebbero saputo apprezzarne anche le mancanze. E dire che nell’intimo provavo un paradosso a dir poco etico a proposito di libri già posseduti da altre persone. Igienicamente parlando mi facevano senso. D’altra parte mi piaceva immaginare chi ci avesse fantasticato addosso. Insomma, anche se piene di microbi, mi attraevano le storie che avevano avuto altre storie prima della mia.
La proprietaria della libreria era una donna sui sessanta, affilata e pensosa. Aveva una camicia con i bottoni a forma di roselline e due occhi sfioriti e rassegnati alla protratta mancanza di sorprese. I codici ISBN probabilmente, le avevano annientato la mimica facciale. Quel giorno l’avrei sorpresa io forse, con ben due acquisti, risultato di una drammatica indecisione. Magari un giorno glieli avrei riportati per rivenderli. Anzi no, non credo proprio. Una volta letto un libro, quello mi apparteneva per sempre. Ero un’aguzzina della sintassi d’autore.
Ho preso entrambi i romanzi e sono andata alla cassa.
– Buongiorno. Prendo questi due.
Silenzio. La signora smilza non ha cambiato nemmeno per un attimo espressione.
Di certo non sarei stata io l’emozione che avrebbe dato un senso alla sua giornata in libreria. Mentre aspettava l’emissione dello scontrino però, dalla bocca le è caduta una frase.
– La vita è come andare in bicicletta – ha detto – cadi solo se smetti di pedalare.
Sono rimasta lì, ferma. Ero a piedi e senza bici. Forse solo per questo non sono caduta. Ho accolto il suo pensiero solitario, in un’atmosfera complice solo per il fatto di condividere quella situazione di moderno baratto.
– Ma se non sai dove andare, va bene lo stesso?
Mi ha guardato come se le avessi chiesto se ieri sera aveva visto la partita della Nazionale.
– L’importante è prendere una direzione. Poi la strada ti dirà se stai facendo la scelta giusta.
Ho preso la sua risposta e l’ho messa nel sacchetto di plastica assieme ai libri.
– Grazie – per un attimo mi sono impigliata nel suo sguardo appassito -, e arrivederci.
– Arrivederci.
La giornata era bella, ancora non troppo rovente da desiderare prematuramente che finisse l’estate. Mi sono diretta sul molo. Volevo un aggancio con la terra e nel contempo un azzardo di blu.
Ho sempre pensato che la lettura ti facesse diventare schizofrenico. Forse un giorno anch’io avrei aperto una libreria.
Il molo era colonizzato da ragazzetti licenziati dai doveri scolastici. Qualche anziano ambulante alzava la media dell’età. Io come al solito non sapevo da che parte stare.
Mi sono seduta sul bordo, a ovest, per tre quarti a favore di luce. Qualche nuvola spensierata concedeva respiri d’ombra ed era tutto sommato piacevole.
Ho preso Màrquez e l’ho sfogliato a ventaglio. Mi ha leggermente rinfrescata. Ho afferrato poi il trasgressivo Nabokov, spulciandolo invece dalla copertina. Prime pagine di cortesia bianche. Oppure no. Una piccola scritta a matita: un numero di cellulare e un nome, Giacomo. Ah però. Chi diavolo sei Giacomo?
A breve scriverò la seconda puntata, ma mi piacerebbe sapere cosa fareste voi. Quindi, vai col sondaggione!
Images: Pixabay
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