Trieste è la mia città.
Qui io vivo, amo e sbaglio. Di tutti gli errori che nel tempo ho commesso, il più bello è stato voltarle le spalle: ricordo che quando vi ritornai, ero accoccolata sul sedile di quel treno e il mare mi urlò tutto il suo azzurro negli occhi. Perché quando un forestiero bussa al suo ingresso principale, il mare lo accoglie e lo adagia nel suo neoclassico androne. E lì presto l’abbandona, in un cammino tanto sicuro quanto solitario: su un molo che permette di espugnare il mondo incidendo una ad una le onde. Chi arriva invece dal crinale, passa per la porta di servizio e ha l’antico privilegio di esplorare i segreti preclusi a chi preferisce le luci della ribalta. Scopre allora che Trieste è eternamente in bilico tra la sua storia e il sommacco del Carso. Ed è in quelle date ed in quelle nervature che scorre il suo sangue. Un fluido ibrido che sussurra confuso. Ma si fa capire.
Amo Trieste perché Svevo l’ha sedotta, ma Saba l’ha abbracciata teneramente. Perché qui impari a sopravvivere al niente che può accadere anche per stagioni intere: tra il rumore delle tazzine riposte nel lavello al bar e i passi di un anziano che rievoca nelle sue scarpe sempre la stessa strada. E poi c’è la bora. Che non è quella gran signora che ricama schiuma bianca alla televisione, ma assomiglia più all’arrembaggio al mondo di un bambino che ha appena imparato a camminare.
Trieste è il sole che apparecchia il vecchio tavolo del cortile. Lì finalmente vapori di risate nuove ed eterne parlano lo stesso, sincero dialetto. Trieste è una sensazione. La stessa che provavo quando da bambina camminavo in equilibrio sul bordo del marciapiede, in una infinita sfida con me stessa e con chi lo credeva un gioco stupido e inutile. Ora vivo qui, eppure la mia città mi manca. Sempre. Perché Trieste non la possiedi mai, nemmeno se ci vivi per cent’anni e un giorno: eppure è la madre silente e devota che ci custodisce nell’ombra di quel viale alberato. Ed è sempre lei, che dal colle, veglia paziente sui nostri malanni.
Trieste si appoggia, muta, sulle mani anziane e nodose di un amore di confine, e si nasconde discreta nei profili di due giovani che si regalano il loro destino. Sono oramai secoli che le dita di questo mare sfiorano il suo porto, il suo canale e i suoi ponti: ma Trieste esita, ancora. Seduta sul ciglio di se stessa, lei continua a farsi corteggiare. In una danza che sa di vele all’orizzonte, mani in tasca e antichi rimpianti.
Immagine: Imaire De Poli
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