La mia vigilia di Natale da single inizia alle ore nove e passa del mattino, con un piede che sboccia anarchico fuori dal piumone. Giro la testa verso la metà del letto che la notte rimane intatta e vi ammiro il trionfo di un vuoto che per un po’ rimarrà così. Come tutte le donne impigiamate ho i piedi freddi. Allora comincio subito per bene le festività con un po’ di autolesionismo natalizio e faccio una cosa che solo chi non ha un fidanzato accanto può osare: conficco un piede all’interno della coscia opposta. Un po’ di yoga termico insomma. In realtà, se premeditato, è meno tremendo di quanto si pensi. Rinfrancata dal successo del tepore riconquistato, dopo un po’ faccio la stessa cosa con l’altro piede e mi sento simmetricamente soddisfatta da questa bella trovata. Con il cranio che si accartoccia nel cuscino, cerco il cellulare con manate a caso. Crollano nell’ordine: la bottiglietta d’acqua, un pacchetto di fazzoletti, il Nasdaq. Lo trovo. Taglio simbolicamente il cordone ombelicale della ricarica notturna con la presa della corrente; da quando ho letto quel post che mostrava un cellulare in carica che finiva carbonizzato, ogni mattina mi sveglio sorprendendomi di non trovarmi al centro grandi ustionati di Padova. Infilo i piedi (ancora tiepidi) nelle ciabatte rosse di questo eterno 24 dicembre che sa tanto di “sabato del villaggio”. La prima pantofola è di umore arrendevole e ci sta di brutto. La seconda invece la inforco male e derapa sotto al comò: il primo due di picche della giornata. Anteprima di WhatsApp: tre messaggi da due chat. E tu speri sempre che in uno di quegli sms ci sia la risposta alla domanda che ti poni da una vita. Invece è tua mamma che ti ricorda che quest’anno, a 37 anni (virgola 9 periodico) ti sei incoscientemente proposta di organizzare il pranzo di Natale per tutta la famiglia, e proprio per questo sta più in ansia di quando lo prepara lei. Poi c’è l’amica pirla che ti scrive. Quella che ti chiama “deficiente” e per questo sai che il Natale ha un senso. Perché dopo i Trenta le offese le accettiamo solo dai veri amici, anzi sono proprio il presupposto per definire il reale calibro di un’amicizia. Colazione con pandoro e malinconia per tutto quello che il Natale non significa più per te. Ma non vuoi guastare la festa a nessuno, per cui indossi quella sciagura chiamata maglione tirolese e con la complicità malata di Youtube spari a morte gli Wham!, perché è giusto che li senta anche la signora che l’altra sera ascoltava la canzone di Achille Togliani. Così, tanto per instaurare una sorta di gemellaggio musicale condominiale. Tra i capelli cotonati del biondino pentito e la frase “This year, to save me from tears, I’ll give it to someone special” dichiari il tuo personale game over.
La verità è che il Natale fluisce lento e inarrestabile come una goccia di condensa sul vetro di una finestra della cucina. Quando è finito non sai nemmeno perché sia arrivato. La condensa almeno ha una spiegazione oggettiva. La bontà con l’interruttore no, ed io non sono capace di festeggiare a comando: lo sappiamo tutti che va contro la nostra natura emotiva. È un po’ come segnare sul calendario col pennarello rosso i momenti in cui ricordarsi di essere felici. Non si può mica fare. Così, da circa una decina d’anni, il Natale per me non è più una festa di decorazioni brillocche, ma un momento in cui mi costringo a stare con la me del momento, che ovviamente cambia e muta anno dopo anno. In un silenzio in cui faccio il gioco delle presenze assenti e le assenze presenti e realizzo l’inventario delle mie azioni fallite, riuscite e mancate. Cerco di capire per chi ci sono stata e per chi non ci sarò più. Ho capito quindi che il mio Natale è una rivisitazione country di un film horror: dove lo splatter delle luci ed il rigurgito cromatico bianco-rosso, si dissolvono in una contemplazione della propria contea da un portico assolato e solitario.
Image: Pixabay
Song: Last Christmas – Wham! acoustic cover by Amanda Law
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