Ricordo quella sera.
Aspettavamo il momento giusto per amarci, ma non arrivava mai. Stava arrivando l’estate e noi eravamo ormai fioriti da troppo tempo. Da piccoli ci avevano insegnato che un fiore deve diventare frutto, ma avevamo paura perché sapevamo anche che un frutto non sarebbe mai più potuto ridiventare lo stesso fiore.
Io mi incastrai in quel ragionamento, finché il tuo braccio presidiò la mia schiena. In un attimo che non scorderò nemmeno quando sarò la donna di un altro, divenne la tua schiava devota. Trovai allora uno spazio tra la tua spalla e il fuoco dei tuoi capelli. Per un attimo soltanto ci adagiai tutto il mio desiderio, ma mi bruciai comunque. In quell’abbraccio la tua barba corta e ruvida scriveva distrattamente sulla mia guancia. Non capivo cosa volessi dirmi. Decifrai il messaggio molto più tardi, ma ormai non mi serviva più.
Come potevamo giocherellare solo con le dita se le nostre bocche avevano già fame e ci facevano male se non si trovavano?
Poi ci fu la scintilla di un tuo respiro più profondo e nulla fu più come prima. Qualcosa in me si invertì. Il mio cuore si scordò di battere e si ritrovò in un affanno d’amore. I polmoni invece, si misero a pulsare. Era iniziata una nuova stagione ed aveva portato con sè tutto quello che serviva. C’era il calore delle nostre schiene, l’acqua del nostro sudore e pure una manciata di terra che attendeva sotto i nostri piedi nudi. Tutto cospirò affinché noi diventassimo nuovo frutto. Un innesto che non sapeva di esistere, se non per una volontà superiore. Avevo paura di quel momento, eppure volevo prolungarlo all’infinito. Ti respingevo e poi ti cercavo. Forse era amore. O forse era solo il naturale corso delle cose. Ma il tuo abbraccio non mi lasciava seguire la scia lasciata dalla lancetta dell’orologio e tornare alla mia vita senza di te.
Il tuo mento sulla mia fronte. Il mio respiro sulla tua spalla.
Quello era il solstizio d’estate.
Images: Pixabay
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