Quel letto non lo facevamo mai. Era sempre in attesa di noi, e noi di lui.
Le nostre mattine erano iniziate con gli ultimi sbadigli luminosi dei fari che si incastravano nelle tapparelle, sempre chiuse male. Dalla strada il mondo era ancora sotto anestesia generale, tranne lo schiocco di luce proveniente dalla finestra del palazzo di fronte. Era quello il momento in cui tutti e due ci svegliavamo per la prima volta, ma non ce lo dicevamo. Restavamo in ascolto del respiro, della schiena e dei piedi dell’altro. Piedi che ad un certo punto accartocciavano il lenzuolo di cotone sul fondo del letto e lo abbandonavano lì. Lo sapevamo che quello era il nostro modo di spiare questa novità che forse avrebbe potuto anche chiamarsi “Amore”. Volevamo osservarlo senza che lui se ne accorgesse e magari rivelasse di essere qualcos’altro. Infatti poteva darsi che c’eravamo sbagliati e allora tana libera tutti.
Era la fine di giugno, nonché la nostra quarta settimana da quando ci eravamo scoperti poco amici e molto ingordi l’uno dell’altra.
Il sole delle sette del mattino già bruciacchiava l’asfalto, il cielo e le intenzioni. Dovevamo metterci d’impegno per ritornare a quella civiltà, che non era inebriata come lo eravamo noi, ma semplicemente arroventata. Poco più di un mese prima avevamo provato a sviare i nostri destini e le nostre mani, ma non eravamo stati in grado di scegliere un’altra traiettoria. Così un pomeriggio ci eravamo ritrovati con una mano che teneva il gelato e l’altra che si infilava sotto la nostra maglietta.
Ti alzavi prima di me per fare la pipì. Girata su un fianco che credevo inespugnabile, prendevo confidenza con questo nuovo presente, dove avevo perso un amico e avevo guadagnato baci, innumerevoli carezze e un corpo nuovo che cercava il mio. Seguivo il rumore dei tuoi piedi nudi sulle piastrelle fresche e lucide. Era un piccolo sollievo per te, che stranamente arrivava anche a me. Acqua che scorreva, gocce nel lavandino, asciugamano verde. Ed ecco qui, l’inizio del tuo assedio. Io già pronta a firmare l’armistizio. O forse no.
– E se ci fossimo sbagliati? – Eccomi qui, come al solito dovevo rovinare tutto.
Non hai detto nulla. Mi hai guardata. Io, con quella mia testa castana affossata nel cuscino. Hai spostato i miei capelli dalla guancia. Poi hai guardato il lenzuolo accartocciato.
– Vorrà dire che non avremo un anniversario da festeggiare. – La tua calma disintegrava le altre mille domande che avrei voluto farti.
Mi hai dato un bacio sulla fronte e sei andato in cucina. Allora io ho guadagnato il bagno. Seduta sulla tazza borbottavo tutte le domande che non ti volevo più fare.
Era tardi, dovevamo andare al lavoro tutti e due. Il letto, come al solito, non avevamo il tempo di farlo.
Ti ho raggiunto in cucina e mentre la moka già scoppiettava il suo scioglilingua, mi hai abbracciata prendendomi da dietro. Mi piaceva quando facevi così. Il tuo mento allora si è comodamente adagiato nell’incavo tra il mio collo e la spalla. Le tue braccia mi tenevano lì, ma era un gesto del tutto superfluo. Non c’era davvero un altro posto in cui avrei voluto andare. Da sopra la maglietta, hai iniziato a giocherellare con il mio ombelico. Siamo rimasti così per qualche secondo. Le bollicine del caffè si riempivano e poi si svuotavano.
Ho aperto il coperchio della caffettiera per far uscire quel brontolio. Che buon profumo c’era in quella cucina. Avevo caldo ma non ero ancora sudata come lo sarei stata durante il giorno. Poi il mio sguardo si è soffermato su una piccola macchia di caffè nella fuga della piastrella. È stato quello l’attimo in cui mi hai sussurrato all’orecchio:
– 1 giugno.
Images: Pixabay
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